Tour fondazione

Solo alla fine del 1400 compare nei territori siciliani la famiglia Henriquez-Cabrera. Donna Anna Cabrera, infeudata il 1 settembre del 1478 della Contea di Modica, è l’ultima discendente della sua famiglia. Fra i pretendenti alla sua mano troviamo don Alfonso Henriquez, che vedendo nella donna un buon partito, fece intervenire il re in persona: dopo due anni di trattative si sposarono nel 1480, dando così origine alla famiglia Henriquez-Cabrera. Sotto Alfonso Henriquez il caricatere era ancora l’unico sbocco a mare per esportare i prodotti della Foresta di Cammarana.

Alla morte di Luigi III avvenuta il 6 Agosto del 1600 gli succede il figlio Giovanni Alfonso Henriquez-Cabrera, nato il 3 marzo del 1597, che veniva investito della Contea di Modica il 13 febbraio del 1601, per cui, data la giovane età, il re Filippo III nomina la madre Vittoria Colonna tutrice dei beni.

Vittoria Colonna pone il capitan d’armi Paolo La Restia, quale nuovo governatore della contea, al quale affida l’incarico di procedere alla ricolonizzazione del borgo di Cammarana, e di riscattare i vignali venduti con il diritto di ricompera ai comisani.

Tali vignali ricadono nell’area dove si sarebbe sviluppato il nuovo abitato.
La Restia indica la zona di Grotte Alte e riporta la presenza nei luoghi indicati di “anticaglia”, cioè di resti e tracce di insediamenti precedenti che documentano fin dall’antichità la presenza dell’uomo nella zona. Si trasferiscono così, insieme alle famiglie di agricoltori, del mugnaio e del ciaramiraro, famiglie di muratori e falegnami.

Difficoltoso è riuscire a colonizzare un vecchio borgo senza decreto regio che Vittoria Colonna riuscì ad ottenere grazie all’intervento di Francesco III duca di Lerma, zio della futura nuora. Nella richiesta inoltrata nel Maggio del 1606 Vittoria Colonna descrive i luoghi come fertili.

Il privilegio viceregio arriva nel giugno dello stesso anno: Vittoria Colonna può ricolonizzare quel borgo il cui nome, Vittoria, spunta già in questa forma in documenti del 1602, in attesa dell’approvazione del re. In poco tempo cominciano ad affluire nel borgo i popolani, attirati dalla salma di terra; famiglie di medio ceto per migliorare la propria condizione sociale. Il privilegio regio arriverà il 31 dicembre del 1607.[1]

La data ufficiale della fondazione è il 24 Aprile del 1607, e Vittoria Colonna per far crescere velocemente la propria città decise di non riempire di tasse gli abitanti. Affidò i terreni a chi ne faceva richiesta e in cambio ricercava grano e che una salma di terra fosse coltivata a uva, incrementando enormemente la produzione del vino, per cui eravamo già famosi fin dai tempi in cui i greci lo esportavano dal porto di Kamarina. Venne gente da tutti i paesi vicini e oltre, fin dalla Calabria e da Malta, e crearono i loro quartieri.

La città crebbe velocemente ed ognuno portò il suo culto. Tante chiese sono giustificate sia da questo, sia dal fatto che prima le sepolture

[1] A. Zarino, Vittoria. Dalle origini preistoriche al privilegio regio del 31 ottobre 1607, Vittoria 1977, pp.46 ss.

avvenivano proprio sotto di esse e che crescendo le città cresceva anche la necessità di luoghi di sepoltura.

Il castello Colonna Enriquez ci viene ricordato nei documenti già della fine del cinquecento col nome di “Dammusi” e di “Palazzieddu”. La struttura conserva al pianterreno una parte delle costruzioni originarie, costruite con piccoli blocchi squadrati in arenaria del luogo.

La parte più antica del castello presenta un prospetto molto semplice con quattro zoccoli, lesene e capitelli che la delimitano. Solo dopo il terremoto del 1693 furono aggiunti i locali di sinistra, datati nel 1787, che presentano delle finestre semplici e rettangolari, che si presentano una al piano terra e l’altra al primo piano.

Nella parte antica, fra le due lesene di centro, al posto della finestra, vi è un grande portone, tramite il quale si accedeva ad un atrio, attraverso il quale si raggiungono due grandi stanze, precedute da due bei portici. Di fronte possiamo ammirare una bellissima trifora, tramite la quale si arriva al cortile retrostante. Sulla destra e sulla sinistra si trovano invece due locali rettangolari, che presentano due volte a botte, a due diverse altezze. Partivano dal cortile sue rampe di scale che si riunivano sul terrazzo con i merli.

Nel 1612 vi era ancora un’ampia veranda con balcone sporgente nella Valle dell’Ippari. I locali sottostanti a destra in origine dovevano essere, per via della presenza delle tuccene (giaciglio povero fatto di frasche), il dormitorio, mentre a sinistra era presente la gendarmeria; i due locali più piccoli erano usati come deposito di armi, munizioni e cibarie. Questi locali subirono varie modifiche anche prima del terremoto del 1693, quali la tramezzatura e l’apertura di nuove porte, così da creare quattro camere.

I restauri del 1787 riunivano i locali dell’ex sottoscala a due a due, creando così due cellette. I lavori di restauro interessavano le volte sulle quali scaricavano i muri del corridoio, che dividevano i locali superiori e che si realizzavano con gli ampliamenti di sinistra e relativa scala di accesso.

Il terremoto del 1693 aveva provocato il crollo dei locali superiori. Durante alcuni lavori di restauro è stata trovata nell’atrio una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana che dopo il 1617 per la scarsezza d’acqua venne ripulita, ingrandita e intonacata così da costituire il bacino di raccolta delle acque indispensabile ai castelli assediati. Il riutilizzo dei locali è accertato dalle tre diverse pavimentazioni ritrovate: la prima in terra battuta bianca, la seconda, datata al XVII secolo, costituita da piccoli mattoni in pietra dura di Comiso; la terza, posta cronologicamente nel 1787 in pietra asfaltica di Ragusa.

Nel 1816, dopo la decadenza dei Conti di Modica, la struttura veniva sistemata e impiegata come carcere dal Comune che lo acquisisce definitivamente nel 1832 e l’uso come carcere continuò fino agli anni 50 dello scorso secolo. Il comune lascia la struttura in stato di abbandono, anche se lo usava come magazzino.

Il successivo uso della struttura è quello di museo civico “Virgilio Lavore” della città di Vittoria che conteneva una pinacoteca con 60 opere, una raccolta di 49 pannelli storiografici sul territorio, una collezione ornitologica, alcuni esempi di macchinari teatrali simulatori di effetti speciali. [1] Nei locali del Castello, a piano terra, è allocata la sede del Consorzio di Tutela del Vino Cerasuolo di Vittoria DOCG.

Il 6 Marzo 1607 vengono appaltati i Magazzini frumentari della Corte. Accanto al Castello e ai Magazzini del Conte sorgevano la vecchia chiesa di San Giuseppe e il Monastero di Santa Teresa. Si possono ancora osservare i gradini che portavano al Monastero (per un periodo fu anche Conservatorio) che testimoniano come il livello della strada dovesse essere più basso. L’unico reperto rimanente è sull’estrema destra che da uno studio dell’antica piana risulterebbe essere il “parlatoio di fuori”. Per capire cos’è dobbiamo immaginare che le monache potevano parlare con le persone all’esterno solo poche volte e attraverso delle sbarre.

Questa rimasta doveva essere la parte in cui i soggetti esterni potevano stazionare. Il monastero aveva accesso nella parte retrostante alla vallata, avevano un giardino con un chiostro. Da fondo valle si può osservare un enorme grotta alla fine della quale abbiamo trovato delle scalinate murate. Sarebbe interessante capire se erano quelle che collegavano la vallata al monastero.

Nel 1902, al posto delle suddette strutture, nasce l’Officina Elettrica Municipale, utilizzata per la fornitura dell’energia necessaria al territorio vittoriese.

La chiesa di San Giovanni Battista in piazza Ferdinando Ricca fu costruita nel 1695, dopo il terribile terremoto che l’11 gennaio 1693 colpì e distrusse molte città della Sicilia orientale, causando moltissime vittime. In realtà, una chiesetta dedicata a san Giovanni Battista esisteva già: costruita su Piano della Trinità nel 1607 venne anch’essa distrutta dal terremoto, al suo posto, nel 1724, venne costruita un’altra chiesetta dedicata a “Maria dei sette dolori” o chiamata anche della “Trinità”, della quale si parlerà in seguito. Si racconta che a Vittoria i danni e i morti furono minori rispetto ad altre città e si attribuì questo avvenimento salvifico ad un intervento divino; allora la popolazione iniziò ad interrogarsi su chi dei santi che si veneravano a Vittoria avesse salvato la città. Decisero quindi di indire una sorta di “lotteria” che, per estrazione, avrebbe risolto la querelle. Alla fine il nome di san Giovanni uscì per ben tre volte e il santo fu proclamato patrono di Vittoria[2]. In suo onore due anni dopo si iniziò la costruzione della chiesa, costruzione alla quale partecipò attivamente la popolazione con donazioni in denaro (circa 20000 scudi) e con la propria forza lavoro. I lavori terminarono definitivamente nel 1734, con la consacrazione della chiesa e la donazione delle quattro campane, ognuna dedicata ad un santo diverso: san Giovanni, Maria SS. del Carmelo, santa Rosalia, santa Vittoria. La chiesa è costruita con tabbia proveniente dalla cava di Cammarana ed è impostata sopra una grande scalinata. La facciata, come si può vedere, è composta da tre registri orizzontali che corrispondono ai tre portali ed è riccamente decorata: la presenza di queste ricche decorazioni a basso rilievo identifica la chiesa con il cosiddetto “stile barocco” che si sviluppa in questo periodo e che ha come caratteristica proprio il fatto di eccedere nelle decorazioni. Sfarzo che si ritroverà anche all’interno della chiesa. In particolare si notano due effigi raffiguranti un agnello, simbolo proprio di San Giovanni, un’effigie raffiguranti il cuore trafitto della Madonna e una raffigurante la testa decapitata di san Giovanni. Quest’ultima raffigurazione sarebbe riferibile ad un particolare avvenimento che si verificò durante il terremoto del 1693. Si racconta, infatti, che durante il terremoto il simulacro del santo subì gravi danni, in particolare ne fu decapitata la testa e secondo le credenze dell’epoca questo avvenimento venne visto come un sacrificio da parte del santo, in protezione della città di Vittoria e della sua popolazione che, come detto, ebbe meno danni e perdite rispetto ad altre città. L’interno della chiesa a croce latina, è diviso in tre navate; nelle due navate laterali sono disposte una serie di cappelle: la cappella dell’Addolorata, con una tela di Domenico Provenzani del 1885 che la raffigura; la cappella di Santa Barbara, raffigurata in una tela di Stefano Rage del 1759; la cappella di Santa Rosalia, nella quale si trova una statua dorata della santa all’interno di una nicchia; la cappella di San Giacomo e di Santa Lucia, con due statue che raffigurano i santi e con il mausoleo dedicato a Iacopo Giudice decorato con leoni; la cappella dell’Immacolata, realizzata con colonne tortili e nella quale si trova una statua scolpita da Vito Corolla tra il 1735-1738. In fondo alla navata centrale, il grande altare in marmo policromo, nel quale è rappresentata, in basso rilievo di marmo bianco la “Natività di Gesù”. Di notevole interesse è anche il pavimento, anch’esso in marmo policromo, che reca due raffigurazioni simili: a sinistra un grande vaso con all’interno una vite con grappoli d’uva rinsecchiti e sulla destra lo stesso soggetto ma con grappoli d’uva rigogliosi. Questa raffigurazione mette in risalto il forte carattere agricolo della città e la grande importanza che aveva la vigna, soprattutto tra 1700 e 1800. Il pavimento rappresenta infatti il dono della città, e dei viticoltori in particolare, a san Giovanni affinché debellasse una malattia che stava affliggendo le viti e che causò una grave crisi economica e sociale. Nel 1798 il cosiddetto “morbo nero”, identificabile con una muffa, colpì le campagne vittoriesi e gli agricoltori non sapendo più come risolvere la situazione, decisero di fare voto al patrono della città, promettendo la realizzazione di un magnifico pavimento all’interno della sua chiesa che simboleggiasse la fine della malattia per le viti. Tre anni dopo il morbo cessò e si iniziarono i lavori per il nuovo pavimento dell’altare, sul quale si fece scrivere, come si può vedere, la frase in latino “morbo deperditis Odorilli vinetis gratia ex voto integre restitutis. 1798-1801”. In fondo alla navata laterale destra, oltre all’altare dedicato alla Madonna del Carmelo, vi è una lastra marmorea che preserva alcune delle spoglie di Vittoria Colonna, portate nella nostra città solo nel 1990. Il resto delle spoglie della fondatrice si trova in Spagna, nella chiesa di San Francesco a Medina. L’interno della chiesa è riccamente decorato con stucchi, dorature, dipinti e affreschi e di grande rilievo sono soprattutto il pulpito in legno e l’organo entrambi della 2° metà del 1800. Numerosi sono poi gli stemmi della città presenti all’interno della chiesa, tra di essi anche il più antico, a quanto si dice, raffigurato sul retro dell’organo. Qui troviamo sia aquile che afferrano la fascia, sia che afferrano i grappoli d’uva. L’invito è a riuscire a trovarle tutte!

Chiesa SS. Trinità: Nell’area dell’antica chiesa esiste oggi la chiesetta della Madonna dei Sette Dolori “Trinità” consacrata nel 1724, il cui portale sembra essere stato recuperato dai ruderi della vecchia chiesa del Patrono.[3] L’attuale prospetto dell’edificio sacro è formato da tre partiti architettonici, di cui il principale è quello di sinistra che costituisce la chiesa vera e propria , delimitata da due alti zoccoli, lesene e capitelli, dove si innesta il timpano ai cui vertici vi è un elemento decorativo a forma di pigna. Il portale con arco a tutto sesto, per il quale è stata utilizzata la pietra locale, al di sopra del quale vi è una piccola nicchia, contenente la statua del Signore con le braccia aperte. Lo stemma, in marmo, raffigurante l’aquila con torre sul petto e striscione alle zampe con scritta: “populus fecit” scoperto durante i lavori è stato aggiunto durante i restauri del 1974, quando venne costruito l’attuale campanile soprastante i locali centrali. L’interno, molto semplice e ad unica navata, ha il soffitto a schiena d’asino. Dalle descrizioni che vengono fatte sugli altari interni si deduce che l’ampiezza originaria sia di gran lunga maggiore all’attuale. Inoltre riflettendo sul fatto  che il nucleo centrale era quello dell’attuale piazza Enriquez si suppone che quindi la facciata principale della chiesa dovesse essere orientata verso tale piazza.

Il Teatro Comunale di Vittoria (1871-1877), in Piazza del Popolo, è uno straordinario gioiello di arte neoclassica, che riceve una forza espressiva ancora maggiore dalla sua particolare collocazione nel contesto architettonico-urbanistico della piazza: si trova infatti addossato alla chiesa tardo barocca di Santa Maria delle Grazie che, pur diversa stilisticamente per la sua dinamica, elegante e flessuosa muratura, ben si allinea alla costruzione neoclassica, il cui portico alternato di colonne tuscaniche e ioniche, intercalate in due piani, crea un gioco spaziale dinamico e chiaroscurale che entra perfettamente in sintonia con la chiesa. Il complesso architettonico, arricchito plasticamente da medaglioni e statue, si conclude con un fregio impreziosito da decorazioni e dal gruppo scultoreo di Apollo e La Musa. Architetto progettista del nuovo teatro fu Giuseppe Di Bartolo Morselli da Terranova (1815- 1865), mentre direttore dei lavori fu l’ingegnere Giuseppe Mazzarella che, morto il Di Bartolo, completò il teatro, attuando delle modifiche al suo interno e ampliando inoltre, per tutta la larghezza del prospetto, la gradinata di accesso, conferendo all’equilibrata struttura neoclassica una straordinaria monumentalità. Il teatro, al suo interno, presenta una sala “a ferro di cavallo” simile nella forma e nella struttura a tante altre dell’Ottocento, esistenti nelle varie città italiane. La sala contiene una platea e quattro ordini di palchi con una capienza di circa 380 posti. Per le decorazioni furono chiamati gli artisti Corrado Leone per le statue e i medaglioni e Giuseppe Mazzone (1838-1880) per le pitture; Cesare Cappellani di Palazzolo Acreide eseguì le indorature. Emanuele Zago di Comiso costruì 160 sedie in ferro. Pasquale Subba da Messina disegnò il sipario e le scenografie. Emanuele La Scala e Salvatore Benvissuto di Vittoria rifinirono a lucido e a stucco il vestibolo. Autore delle varie decorazioni interne, come si è detto, fu Giuseppe Mazzone, il più valido artista dell’Ottocento vittoriese. Al centro del soffitto del vestibolo, ingresso del Teatro e ambiente antistante la sala teatrale, è dipinta l’Allegoria della musica, mentre negli altri due riquadri laterali troviamo decorazioni allegoriche costituite da statue, reperti archeologici, fogli musicali e poetici, attorno ai quali si svolge una danza e un’orchestrazione musicale, artistica e poetica, dell’inno alla vita e all’arte nelle diverse forme, evidenziata da figure dalla tenera età. Sulle opposte pareti laterali del boccascena sono rappresentate due figure simbolico-teatrali La Commedia e La Tragedia, mentre al centro dell’arco scenico vi è, in altorilievo, l’aquila reggente grappoli d’uva, simbolo della Città di Vittoria. Nella volta della sala teatrale, animata da decorazioni floreali, intercalate da ritratti di famosi musicisti, scrittori, poeti e commediografi italiani, vi è una rappresentazione figurativa, dalle vivaci tonalità coloristiche, di amorini festeggianti tra ghirlande di fiori e foglie, nastri ornamentali e mantovane, e di due candidi cigni che, posti su una nuvola, completano la decorazione. Le rappresentazioni pittoriche del teatro sono rese efficaci da un brillante cromatismo, evidenziato da un particolare ed equilibrato studio luministico. Il Ridotto del Teatro è oggi sede permanente delle opere pittoriche dell’artista vittoriese Natale Barone. Il Teatro, intitolato a Vittoria Colonna fondatrice della città, si inaugurò il 10 Giugno 1877 con l’opera lirica La forza del destino di Giuseppe Verdi. Della chiesa sita in Piazza del Popolo, a destra del Teatro Comunale, si hanno testimonianze a partire dal 1612, ma molto probabilmente è anteriore; potrebbe risalire al 1400-1500, come dimostrerebbero alcuni particolari architettonici relativi a questo periodo. Originariamente la chiesa doveva avere una cupola decorata con formelle di ceramica smaltata, maiolica, di colore verde, azzurro e giallo, cupola che crollò in seguito al terremoto del 1693 e della quale restano soltanto poche di queste formelle. La stessa sorte toccò alla torre campanaria il cui crollo causò il danneggiamento anche del soffitto a cassettoni della chiesa. Intatti rimasero, al contrario, i due portali della chiesa. Nella facciata, ricostruita solo nel 1754 con blocchi di arenaria locale della cava di Cammarana, si notano diversi particolari interessanti, che richiamano epoche lontane: sugli stipiti dell’architrave del portale centrale sono raffigurate due cariatidi, quella a sinistra raffigura una leonessa con volto di donna e quella a destra un leone con volto di uomo; sugli stipiti del portale di destra sono presenti due erme, quella a destra raffigurante un uomo con barba e braccia alzate sulla testa che sembra sorreggere l’architrave stesso, identificato come un faraone, e quella che sembra essere una sfinge con volto femminile, sulla sinistra. Nella sezione centrale della facciata ci sono due contrafforti che, originariamente, dovevano ospitare due statue, oggi non più presenti. Al centro si apre una grande finestra balaustrata e, al di sopra di questa, un orologio. La terza sezione della facciata è costituita dalla torre campanaria, con campanile in ferro battuto. L’interno è ad una sola navata, con una serie di cappelle disposte sulle pareti laterali, decorate con nicchie, marmo intarsiato e statue. Accanto la chiesa delle Grazie fu eretto, nel 1634, il convento di Santa Maria di Gesù che quattro anni dopo fu aggregato alla chiesa stessa, divenendo convento delle Grazie, assegnato ai francescani osservanti o zoccolanti. Al di sotto della chiesa e del  grande chiostro del convento delle Grazie sono presenti numerosi tunnel e cripte che collegavano i due edifici con la chiesa di san Giovanni Battista e con la chiesa dell’ospedale.

La piazza Calvario è un’ emblema di come sia cambiato il paesaggio della città, e di come si sia evoluto e adattato col tempo. Nei primi del Seicento, infatti, lo scenario era quello della parte estrema della città, circondato dalle mura perimetrali e dalla porta della Marina, attraverso cui si andava verso Scoglitti o verso i mulini dei Caglia.  La zona era periferica e piena di alberi. Esisteva già un calvario nel Seicento che nel 1859 fu sostituito con questo appartenente alla Congregazione del SS. Crocifisso. Quello che vediamo accanto è l’ex convento dei Cappuccini, inaugurato nel 1705, con l’annessa chiesa di Sant’Antonio di Padova. La zona viene descritta nel documento di concessione come “extra moenia”, cioè fuori le mura antiche, nei pressi di una chiesetta del SS. Cristo alla Colonna di cui non rimane nulla. I cappuccini erano un ordine molto severo, che viveva solo di elemosine e che era tra i pochi ad accudire i malati di peste e colera. Molto probabilmente fu per questo che i vittoriesi ne richiesero la presenza nel paese. La zona della villa Comunale era quella dei loro giardini. La chiesa attigua al convento fu costruita quasi in contemporanea ma terminata qualche anno dopo. Con il terremoto del 1693 e il crollo della chiesa di S. G. Battista, si sa che la popolazione contribuì enormemente alla realizzazione dell’attuale Basilica, motivo per cui le elemosine ad altre congregazioni religiose furono addirittura vietate! Tutto riprese con la fine della costruzione della basilica. Da documenti storici si sa che le prime sepolture si effettuarono nei primi del ‘700. Ricordiamo che fino alla rivoluzione francese i morti venivano seppelliti vicini o sotto le chiese. Anche questa chiesetta aveva la sua cripta che oggi corrisponde al salone adibito a teatrino della parrocchia (dietro la cappella della Madonna di Loreto). Ovviamente ha subito delle modifiche nel tempo, con rimaneggiamenti e adattamenti. La chiesa è famosa per il culto della Madonna di Loreto, di cui custodisce una statua del ‘700 e un altare/reliquario. Per la sua festa fu istituito un mercato che è l’antenato della nostra fiera Emaia. La famosa fiera di San Martino, in realtà è nata per festeggiare Maria SS. Di Loreto. Si faceva nello spazio oggi occupato dal campetto da tennis. Riuscì talmente bene l’iniziativa, che iniziarono a venire da fuori per poter esporre la propria merce, e che l’Amministrazione dell’epoca cercò in tutti i modi di toglierla ai Padri. Solo nel 1866, dopo l’unità d’Italia e la soppressione degli ordini monastici, il diritto sulla fiera passo al comune. Fu ribattezzata Fiera di San Martino, forse in onore al periodo in cui si spilla il vino, o forse a qualche battaglia. Consideriamo che dopo l’unità d’Italia anche molte vie cambiarono nome. Nel 1876 divenne Ospedale, modificato ovviamente per l’uso. Qui fu messa una ruota dove venivano lasciati i figli indesiderati, frutto del “peccato”, sia perché luogo lontano dal centro, sia perché ormai ospedale con accanto una chiesa. Fu per questo fatta una specie di succursale per i battesimi nell’allora chiesa di S. Maria Maddalena. Nel 1919 la chiesa fu riaffidata a un ordine francescano ,il Terz’Ordine. Fu restituito ai PP. Cappuccini solo nel 1967, quando già la Chiesa era stata consacrata anche a S. Antonio di Padova. Persone anziane ci raccontano che per un periodo fu anche sede degli uffici postali.

Fontana del Garì: I cappuccini vengono ricordati anche per la nobile iniziativa di aver lavorato per portare l’acqua alla città. Nel 1721, infatti, Cristoforo Garì acconsentì ai padri di scavare un acquedotto che dalle sue terre di Vigne e Vignazza portasse l’acqua alla silva del convento, a suo tempo detta contrada dei Comuni (perché tutti i cittadini ne potevano usufruire). L’acqua era così abbondante da decidere di realizzare una fontana (quella vicino alla Villa) e di far proseguire l’acquedotto fino al quartiere di San Biagio. A questa chiesa però l’acqua veniva venduta, allo scopo di rifornire di cera la chiesa dei cappuccini.

La villa è l’antico orto dei Cappuccini. Divenne comunale nel 1868 e aperta come Villa Comunale solo nel 1933. Lo stemma della città di Vittoria raffigura un’aquila nera con le ali in posizione di volo, che reca sul petto una torre e sulla testa una corona baronale merlata, simboli della famiglia Henriquez Cabrera. In certi casi, specialmente nelle raffigurazioni più antiche, tiene tra gli artigli un nastro, sul quale è scritta in latino la frase “Victoria, pulcra civitas post Camerinam”, ossia “Vittoria, città bella dopo Camarina”, a rimarcare la connessione tra l’antica colonia greca Kamarina e la “città nuova” Vittoria. In altri casi l’aquila (nelle raffigurazioni del 1700-1800) afferra due grappoli d’uva, frutto della terra vittoriese utilizzato, in particolare, per la produzione del pregiato vino “Cerasuoloche, a partire dal 1700 contribuì allo sviluppo e alla ricchezza della città e che ancora oggi è considerato un’importantissima fonte di reddito e di prestigio per la città stessa. Lo stemma fa la sua comparsa nel 1643, in occasione della visita nella città del figlio di Vittoria Colonna, Giovanni Alfonso Henriquez e riprende altri stemmi aragonesi appartenenti ad altre città di dominazione spagnola (ad es. Palermo, Ragusa, Chiaramonte, Acate, Siracusa) che recano gli stessi attributi di corona e torre in petto. Lo stemma si trova in numerosi edifici della città: nella Basilica di S. Giovanni Battista, all’interno del Teatro, sulla facciata della stazione e anche sulla facciata della via Cavour delle “scuole nuove”, ossia della scuola “Vittoria Colonna”.

La nuova chiesa di San Giuseppe, di cui abbiamo notizia dal 1691, sita in via Gaeta, presenta un semplice prospetto arricchito da un campanile decorato con mattonelle di terracotta smaltata, di colori vari. Gli stucchi presenti all’interno sono attribuibili a Giovanni Gianforma e alla sua bottega, grazie ai raffronti possibili con la chiesa del Carmine di Scicli, eseguiti dallo stesso artista. La chiesa si presenta ad unica navata e possiamo affermare che il primo soffitto fosse ligneo e decorato dalla scuola di Filippo Paladini; andato distrutto, fu ricostruito nel 1950-51 in gesso e decorato dal pittore Cannì. Oggi possiamo ammirare un nuovo soffitto in legno riquadrato da cornici. Partendo da sinistra, la prima cappella presenta una tela raffigurante la Sacra Famiglia, datata al 1871 e realizzata da Giuseppe Mazzone; la successiva è dedicata al Sacro Cuore; la terza presenta una tela con il Transito di San Giuseppe del 1677, attribuita ad Antonio Scalogna, probabilmente proveniente dalla prima chiesa di San Giuseppe. Segue l’altare maggiore che presenta una magnifica composizione di stucchi dove è rappresentata la gloria di San Giuseppe tra angeli, putti e figure religiose; al di sotto dell’altare vi è una cripta. Sulla parete destra, a partire dall’altare maggiore, si trova la cappella del Battistero, seguita da quella del Crocifisso, dove si trova una scultura lignea di ottima fattura e l’ultima cappella con il gruppo scultoreo della Madonna del Rosario con San Domenico e Santa Caterina.

Grazie agli ultimi lavori di restauro possiamo godere, sulla parete della finestra della sagrestia, di un orologio solare che è stato ripulito.

Le informazioni su questa breve guida sono state redatte da: Leda Pace. Laureata in archeologia, ha fatto degli stage presso il Museo Archeologico di Gela. E’ anche accompagnatrice turistica. Specializzanda nel linguaggio dei segni. Ha ottima conoscenza della gastronomia dell’antica Grecia.

 

[1] A. Zarino, Guida turistica, Vittoria 1985, pp.134 ss.

[2] Ferraro, 1985, p. 42.

[3] Sito istituzionale del Comune di Vittoria

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